martedì 16 ottobre 2012

C'era una volta il sorriso di Beppe Viola


Sono già trent'anni che è morto Beppe Viola. Forse amato più da morto che da vivo, e non parlo di famiglia, amici (ne aveva tanti), ma di attenzione, rispetto, riconoscimenti ufficiali. Era consapevole del distacco, per non dire emarginazione, derivanti dal suo modo "altro" di essere giornalista sportivo. "Tengo duro per migliorare il mio record mondiale di mancata carriera", diceva. E sorrideva. Sorrideva spesso, el gh'aveva du oeucc de bun, come quello che portava i scarp del tènis, le palpebre un po' pesanti anche se non aveva fatto tardi. Sulla copertina di "Vite vere compresa la mia" il disegno di Altan è come una fotografia. Il libro è del 1981. "Quelli che" è del 1975. Forse la ripetizione sistematica di "quelli che" è partita da una poesia di Prévert, ma tutto il resto è Milano, è Italia, è gioielleria di precisione, è satira, è umanità. Ringrazio Umberto Eco per la descrizione di "quella" Milano uscita sabato su Repubblica. Perfetta. In "quella" Milano è nato Beppe Viola il 26 ottobre 1939, ci è cresciuto ed è morto il 17 ottobre 1982, mentre stava montando in Rai il filmato di Inter-Napoli 2-2.
Oriali, rigore di Altobelli, poi negli ultimi 4' Criscimanni e Marino. Ictus. Si definiva collezionista di mal di testa, forse si era trascurato. A mezzanotte era già clinicamente morto ("è andato", disse il dottor Jannacci ) ma non si poteva dire per via del trapianto degli organi. Gli occhi andarono a una cieca con sei figli, il resto non so. So che ai funerali c'era un mare di gente, anche facce famose dello sport e dello spettacolo, ma soprattutto facce di gente qualunque, molti del triangolo in cui aveva piantato le tende dalla nascita (piazza Adigrat, via Sismondi, via Lomellina), ma tanti fuori, alcuni ai margini (clanda, zanza, nel gergo della strada). Lettera significava menagramo, ricotta affare, bevuto arrestato. Sacco era mille lire, scudo cinquemila, deca diecimila (oggi, decaffeinato), marengo ventimila, gamba centomila, testa un milione. Se oggi la gente va ai funerali per vedere se ci sono quelli che poi non ci sono, allora ci andava per dire grazie, ci hai fatto compagnia e ci dispiace che sei morto. Lo diceva in silenzio. Certo, Beppe era "uno della tv", ma guai a chiamarlo dottore. Era anche un instancabile osservatore, frequentatore di bar, osterie, pasticcerie, salumerie. Sempre cose pesanti. "Adesso il gozzo ride ma domani il fegato telefona". Come Di Stefano, s'era laureato all'universidad de la calle, lui che a scuola andava malvolentieri (meglio il biliardo di largo Augusto) e che quando lesse sul tabellone "Viola Giuseppe respinto" commentò: "Ma se nemmeno mi conoscono. Disperso, dovevano 
scrivere". Alla Rai entrò nel '62, ebbe la fortuna di inserirsi dallo studio nella finale di Wembley tra Benfica e Milan (lui milanista) perché a Carosio dopo l'1-1 era saltato l'audio e fu Beppe a commentare (molto sobriamente) il 2-1 di Altafini. All'esame per passare professionista Enzo Biagi gli chiese: "Secondo lei, in questa Dc Fanfani è di destra o di sinistra?". "Dipende dai giorni", rispose. Promosso. La Rai lo assunse con regolare contratto nel '66 e allora sposò Franca, la bambina del piano di sopra in piazza Adigrat. "Beppe al primo, io al secondo, ci siamo conosciuti ai tempi dell'asilo. Lì abitava soprattutto gente che aveva a che fare con Linate. Il padre di Jannacci era pilota, il padre di Beppe marconista". Nonno Viola era di Contursi Terme, nel Salernitano. Le radici dei milanesissimi Viola, Jannacci, Abatantuono, Teocoli, Gaber, Strehler, erano un po' lontane dai Navigli, allora a Milano ci s'integrava facilmente, non era una città frenetica e spenta, specializzata in buttadentro e buttafuori. Nel meticciato culturale il talento emergeva, quando c'era. Questo spiega perché Beppe sia stato giornalista di carta stampata, radiocronista, telecronista, autore di testi per cabaret e canzoni, sceneggiatore, partendo da un innato senso dell'umorismo e da una cultura classica (mai laureato, ma quanti libri in casa sua) e insieme popolare. Posso aggiungere: la persona più generosa che abbia mai incontrato, quasi sempre con problemi economici ma sempre disposto a dare le ultime mille lire a uno che stava peggio. Molti dicono che è arrivato molto presto, troppo per essere capito subito. Invece no, è arrivato quando doveva arrivare, in quegli anni, e se n'è andato troppo presto. Restano molte cose a ricordarlo, il filmato dell'intervista a Rivera sul tram numero 15 è una summa. Non solo per l'idea, dove c'è tutto Beppe, ma perché quel tram non era affittato ad hoc. C'erano passeggeri, ma non invadevano la scena. Era un'altra Milano, forse un'altra Italia, sicuramente un altro giornalismo televisivo. Equivaleva a un triplo carpiato, ma Beppe ha dimostrato che si può fare a meno dell'epica, dei luoghi comuni, del divismo. Al grande calciatore dedicava la stessa attenzione che al barbiere, o a quello che aveva svuotato un tir (tremila carriole) e gli chiedeva: interessa l'articolo? In Rai ha avuto amici e nemici. 

Il 3 dicembre '79 scrive al direttore: "Ho quarant'anni, quattro figlie e la sensazione di essere preso per il culo". Gli era stata tagliata la mazzetta dei giornali. Beppe era lo sport senza piedistallo, ma anche la spalla di due guru (Gualtiero Zanetti e Gianni Brera) non particolarmente portati per la tv. Beppe toccava i tasti giusti, dava i tempi. Ma era giudicato poco telegenico: la cravatta sembrava lo strangolasse, sudava per tre, non era abbronzato. Anche suo nonno aveva la passione del gioco: carte. Il padre, cavalli. Beppe tutt'e due. Dei cavalli sbagliati ("le bestie") non ha mancato uno. Era molto bravo a scopa d'assi, quasi come Pantera Danova, nelle partite con Pizzul e Facchetti. Sembrava svagato, ma sul lavoro non sgarrava. Sembrava pigro e ha sgobbato come un mulo tutta la sua corta vita. Nella redazione di "Magazine" c'era al muro il tariffario: a chi avesse usato "sfrecciano" 5mila lire di multa, "ginocchio in disordine" 10mila, "il centrocampista va a battere" 20mila. Nel caso, tutto veniva reinvestito alla salumeria, oltre l'angolo di via Arbe.
In casa non ha mai parlato di sport, né portato le figlie in uno stadio. Sarebbe molto orgoglioso di loro: Marina vive negli Usa, scrive bene, presto Feltrinelli dovrebbe pubblicarle un libro. Renata si occupa di teatro. Anna, dopo rom e tossici, di carcerati a Bollate. Serena lavora alla Cineteca italiana di Bologna. Su Rai 3 il 19 novembre dopo il programma di Fazio andrà in onda il documentario "Quelli che... Beppe Viola". Sarebbe stato più logico trasmetterlo in questi giorni, ma forse è eccessivo chiedere logica ai carrozzoni. Da vivo lo vedevo come un incrocio tra Damon Runyon e un Bianciardi con meno vetriolo. Questa sera lo ricorderò come faceva lui con gli amici, con una bottiglia di rosso, e riascoltando "Vincenzina e la fabbrica" e un'altra canzone meno nota, "Io e te". Parla di due ragazzi e dell'avvenire che è un buco nero in fondo al tram. Come oggi, anzi oggi è più nero.

Gianni Mura - La Repubblica



domenica 1 luglio 2012

L'Europeo e il milione e mezzo del tabaccaio



"Io vorrei sapere, che si vinca o si perda, cos’è quel milione e mezzo versato da capitan Buffon a un tabaccaio di Parma. Vorrei sapere quali e quanti dirigenti e calciatori coinvolti nell’inchiesta di Cremona per essersi venduti le partite in barba ai tifosi e alla lealtà sportiva, sono colpevoli o innocenti. E vorrei che i colpevoli fossero radiati e condannati. Nessuna vittoria all’Europeo può cancellare lo scandalo. E invece c’è chi confonde i piani. È bastato che Buffon parasse tutto ai tedeschi perché Capezzone, disperso da mesi, rialzasse il capino e intimasse non si sa a chi né perché di “chiedere scusa a Buffon”. È bastato un paio di partite vinte perché tutti si scordassero che uno dei nostri eroi, Bonucci, è indagato nel calcioscommesse. Era già accaduto nel 2006, col Mondiale vinto un mese dopo Calciopoli: la coppa diventò un aspersorio per benedire e assolvere mediaticamente i ladroni con l’Operazione Amnesia, che ha la stessa radice di Amnistia. La stessa magliarata si sta tentando ora nel campo della politica. Per vent’anni ci siamo fatti governare, salvo rare parentesi ed eccezioni, da delinquenti e/o pagliacci che ci han portati al fallimento. Poi un provvidenziale colpo di palazzo orchestrato più a Berlino, Bruxelles e Francoforte che a Roma, ha messo su un governo tecnico guidato da una persona seria, almeno più seria di chi c’era prima, costringendo un Parlamento indecente ad appoggiarlo per paura delle elezioni. Ora son bastati sei mesi di travestimento, il loden al posto della bandana e del toupet, i prof al posto delle mignotte, per farci dimenticare che razza di paese siamo e chi abbiamo eletto per tutti questi anni, mentre l’odiata Germania si faceva governare dagli Schroeder e dalle Merkel. Ora è passata addirittura l’idea che il nostro debito pubblico e tutti gli altri guai dipendano dalla linea dura della Merkel. Piegata la quale torneremmo nel Regno di Saturno."

Il Fatto Quotidiano (Luglio 2012) - Marco Travaglio 

http://isegretidellacasta.blogspot.it/2012/07/da-non-credere-travaglio-ecco-perche.html

domenica 3 giugno 2012

Andrea Agnelli e i testi dei calciatori...


Quando Paolo Rossi fu beccato nel primo calcioscommesse (quello del 1980) e si prese 2 anni di squalifica per un paio di puntate da 20 milioni di lire, un cronista gli domandò che cosa l’avesse spinto a rovinarsi per così poco, visto che guadagnava 5 miliardi all’anno.
E lui: “Ho un figlio da mantenere”.
Da allora ci si domanda chi scrive i testi ai calciatori. Ma anche ai presidenti, che un tempo Giulio Onesti chiamava “ricchi scemi” e non paiono cambiati granché.
Andrea Agnelli ha fatto le scuole alte, è figlio del dottor Umberto, è nato e cresciuto nell’unica real casa rimasta in Italia dopo la caduta della monarchia, una famiglia nota per aver sempre professato il massimo rispetto nelle regole della giustizia, anche quando le violava. Il rampollo vince il primo scudetto della rinascita bianconera, dopo l’inferno della serie B e il purgatorio della lenta ricostruzione. E, anziché gioire per un trofeo conquistato finalmente sul campo, senza aiutini né moggismi, si affretta a dire che è il numero 30, non il 28, rivendicando i due revocati perché truccati da Calciopoli. Così getta lo scudetto meritato nel calderone di quelli immeritati. Un genio. Già che c’è elogia come “grande manager” Moggi, radiato dalla Federcalcio e condannato in tribunale per associazione per delinquere e minacce, e in appello per violenza privata.
Non contento, appena emergono le accuse a Conte (ovviamente tutte da dimostrare), indagato per associazione a delinquere per un episodio relativo alla sua esperienza al Siena, si presenta al suo fianco e, anziché limitarsi a precisare che la Juve non c’entra, nutre fiducia in Conte, ma attende il verdetto dei giudici, si sporge in avanti anticipando la sentenza (“Conte è estraneo a tutto”) e annunciando che qualunque cosa accada “Conte guiderà la Juve nella prossima stagione”. Dichiarazione quantomeno azzardata, visto che l’indagine di Cremona è serissima: tant’è che finora gli indagati han quasi tutti patteggiato squalifiche con la giustizia sportiva. E Conte, se risultasse anche lui colpevole, rischia una squalifica da 3 anni alla radiazione e dunque non potrebbe allenare neanche una squadretta di Promozione. Agnelli non batte ciglio nemmeno quando Conte si copre di ridicolo attaccando la Procura perché, “prima di perquisirmi e indagarmi, avrebbe dovuto chiamarmi”. Ma certo, quando un magistrato deve perquisire qualcuno, la prima cosa che fa è chiamarlo, annunciargli l’arrivo degli agenti e prendere appuntamento se non è troppo disturbo.

Anche Buffon fa un’uscita che pare un’entrata, giustificando i pareggi in saldo di fine stagione (“due feriti sono meglio di un morto”) e sparando a zero sui pm e i giornalisti per i “blitz annunciati” e le “fughe di notizie” (verbali depositati e dunque non segreti). Due giorni dopo un rapporto della Finanza rivela che Buffon ha scommesso 1 milione e mezzo in 10 mesi in una tabaccheria di Parma, come già nel 2006 in piena Calciopoli. Se si provasse che scommetteva su partite di calcio, avrebbe violato il codice sportivo e verrebbe squalificato. Ma i suoi legali, anziché escludere subito questa evenienza e spiegare su cos’altro scommetteva, vaneggiano di “privacy violata”. E Agnelli, anziché far luce sulle scommesse del suo portiere nonché capitano della Nazionale, strilla alla giustizia a orologeria: “Singolare che l’informativa esca proprio ora”. E quando avrebbe dovuto uscire, di grazia? Qui lo scandalo sono eventualmente le scommesse, non la notizia. 
Oltre a parlare come un Berlusconi qualsiasi (infatti Giornale e Libero titolano: “Vendetta dei pm su Buffon”), Agnelli non s’accorge che “a orologeria” potrebbe essere l’uscita preventiva di Buffon. Sapendo di avere scommesso cifre esorbitanti e sospettando di essere stato scoperto, il portiere potrebbe aver giocato d’anticipo attaccando i pm per gabellare l’indagine per una ritorsione. 
Ma a questo punto si fa strada l’ipotesi più inquietante di tutte: che Andrea Agnelli i testi se li scriva da solo.

Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano


domenica 13 maggio 2012

La terza stella, gli scudetti di Zeman e il mestiere del tifoso

La meritata vittoria dello scudetto 2012 da parte della Juventus, la squadra che nella storia del campionato italiano di calcio, è bene ricordare, ha avuto quasi sempre un ruolo da protagonista assoluto, ha riproposto il leitmotiv cavalcato fin dal primo anno di presidenza da Andrea Agnelli: gli scudetti erano 29 e adesso per logica conseguenza diventano 30.
E in effetti, a prescindere da ogni valutazione di carattere ufficiale, la maggior parte dei tifosi della vecchia signora ha sfoggiato da subito il “nuovo” palmares comprensivo dei due scudetti revocati dalla Federcalcio per slealtà sportiva e illecito strutturale.
Tutto questo, al di là di ogni ampollosa questione di principio, trova un naturale approdo nella quotidianità italiana, laddove qualsiasi verdetto ufficiale assume sempre una connotazione variabile, almeno nell’immaginario della gente.
Del resto, cosa dovrebbe fare il povero tifoso medio(nella fattispecie juventino) degli anni duemiladieci!? Incalzato, titillato, provocato, persino stordito da telecronache di parte, testate nazionali faziose, emittenti locali che tirano al campanile, pagine di sfottò imbarazzanti su social network e sulla rete in generale, non può che scegliere il suo pezzetto di personale guerra santa che lo spinge in maniera automatica a considerare nemico l’avversario, non più semplicemente(e possibilmente)da battere, ma da umiliare.

Così, questa terrificante, speculare simbiosi con la politica nazionale degli ultimi vent'anni, ha fatto praticamente saltare tutti i principi che avevano reso questo sport popolare nell’accezione letterale del termine. Lo scambio della maglietta, il rispetto per i campioni altrui, il gusto della giocata fine a se stessa, la ormai dimenticata tradizione della seconda squadra del cuore, il non infierire quando l’avversario è in disarmo, han cominciato a non avere più senso. Tanto che, il più elementare fair play del campo, che prevedeva il gesto di buttare fuori la palla quando un avversario cadeva a terra dopo un infortunio, non solo subisce la stigmatizzazione a suon di fischi dei tifosi presenti allo stadio, ma diventa soprattutto l’occasione degli stessi professionisti per poter spezzare il ritmo della partita quando si è in vantaggio.
Senza considerare l’origine di questo degrado, derivante dalla malafede degli addetti ai lavori, quali almeno l’80% dei presidenti di calcio, caricature uscite direttamente dal rimpianto “Mai dire gol”(sarà una mia impressione, se ci fossero più Campedelli del Chievo, si vivrebbe meglio...), dalla pletora di ex giocatori che per campare cominciano a fare opinione, dagli allenatori che difendono il loro lavoro oltre ogni limite consentito(anche di decenza), e da quei piccoli giornalisti tifosi che per il solo fatto di seguire la squadra per tutta la giornata si sentono depositari di chissà quale verità.

Allora, come se ce ne fosse stato bisogno, fare il tifoso o il supporter come lo chiamano all’estero, diventa un mestiere a tutti gli effetti.
E… cosa drammatica, arrivati a tale condizione, il tifo inevitabilmente, anziché aggiungere un piacere per un momento che lo scrittore Sandro Veronesi(juventino tra l’altro), chiamerebbe di “trascurabile felicità”, finisce invece per comportare uno stress che s’aggiunge alle normali difficoltà quotidiane.
E nessuno si meraviglia quando all'inizio di questo maggio sonnolento, il presidente della squadra neo campione d’Italia, anziché gioire per la sua prima vittoria da massimo dirigente, preferisce rinfocolare una polemica sterile, non appena la sua squadra è tornata vincente.
Perché la vita corre veloce, non si gioisce neppure più per una bella vittoria sul campo, non c’è tempo. A quel punto ciò che interessa, è la nuova(?)schermaglia del momento: sono 30 scudetti o 28(alzi la mano chi si ricorda d’emblée quanti ne han vinto le altre grandi europee, come il Real Madrid o il Bayern di Monaco)? Oppure sono 22 come provocatoriamente suggerisce un maestro di calcio(e di pensiero) quale Zdenek Zeman?
Già, come sono lontani i tempi in cui ci si giocava lo scudetto alla fine della primavera, e magari rischiavi pure di vedere la squadra perdente, uscire comunque tra gli applausi, come in un bellissimo Napoli-Milan sul finire degli anni '80...

Ci sarebbero tutti gli estremi per lasciar perdere: non è una questione vitale, ormai l’estate comincia a fare capolino, e il campionato di calcio, proprio oggi, finalmente(?) volge a conclusione… 
Eppure, quando mi allontano dalla tv, dai giornali, dai media, e vado a giocare a pallone in un campetto fuorimano dal centro, in provincia, tutti questi dubbi(e ahimè anche brutte certezze), fortunatamente vanno via.
Vanno via di fronte alla semplicità con cui tanti ragazzi, anche in tenerissima età, lasciano a casa la playstation e corrono appresso ad una palla a volte anche spellacchiata, vestiti con improbabili mise che sembrano uscite da un magazzino sportivo in disuso, castigate oltremodo da insopportabili pettorine. Lì, non c’è bisogno dell’arbitro.
E tutti quei principi saltati nel calcio di professione, ritornano naturalmente a posto, non più corrotti da quello che si vede e si sente, ma rigenerati da quello che si fa.
Fosse per me, all’immagine di una nota birra che pubblicizza un divano per seguire la partita, di contro ci metterei sempre questa di chi nel suo piccolo prova a dare del tu al pallone.
E' più bello, e forse è più giusto. 

** La foto di copertina "I tifosi sono i nuovi mostri" (Valencia, 2010) è di Fabiana "Geomangio"

venerdì 4 maggio 2012

I calci in culo di Lippi e il diritto alla cazzata di Delio Rossi

"Se fossi il presidente manderei via subito l'allenatore, poi chiamerei i giocatori e li attaccherei tutti al muro e gli darei dei calci in culo a tutti".
Questo fu lo sfogo di Marcello Lippi, allenatore dell’Inter, dopo la sconfitta della sua squadra sul campo della Reggina, il primo ottobre del 2000.
Quell’allenatore, non era simpatico, ma era considerato un vincente.
Aveva vinto tutto con la Juventus. La stessa cosa non gli riuscì con la squadra di Milano che gli aveva dato carta bianca anche sul mercato. E dopo quella sconfitta e le dichiarazioni sopra riportate in conferenza stampa, fu(giustamente)sollevato dal suo incarico; del resto dichiarazioni disgraziate a parte, dopo più di un anno non era riuscito neanche a portare quello squadrone miliardario in Champions League.
Eppure, proprio dopo quella discutibile uscita, quell’uomo così antipatico, così borioso e pieno di sè, divenne per il popolo del pallone, più simpatico e più umano.
In fondo aveva detto quello che l’uomo della strada, anche quello che non segue il calcio, pensava da sempre: bisognerebbe prendere a calci nel sedere i calciatori viziati.
Già, e Marcello Lippi, ex calciatore di serie A e allenatore poi delle più grandi squadre italiane(con conseguente munifico stipendio), in quale categoria andava derubricato?
In quella dei ricchi allenatori viziati e cafoni almeno quanto i propri calciatori o in quella degli uomini della strada, che magari spendono la loro passione e il loro poco denaro in curva?

Oggi, più di dieci anni dopo, nello stadio della Fiorentina, si è consumato un delirio(uno degli ultimi, si spera), rispetto al quale gli sfoghi dell’ex allenatore della nazionale al Granillo di Reggio Calabria, diventano finezze.
Delio Rossi, allenatore della Fiorentina, dopo appena mezzora del primo tempo, perde in casa col Novara(già retrocesso) per due a zero, e comincia a vedere addirittura le streghe della B.
E come mossa tattica, pensa legittimamente di sostituire il bravo ma evanescente Ljajic, perché lo vede troppo indolente. Il giovane calciatore, come spesso accade ad alcuni talenti scostumati di questo sport, rientrando in panchina gli fa il verso col classico applauso ed aggiunge qualche offesa di quelle che non fan piacere sicuramente a nessuno.
Niente di nuovo, si potrebbe banalmente aggiungere.
Però stavolta, c’è qualcosa che fa(rà) scalpore. Rossi, un uomo apparentemente mite, anche nel suo aspetto fisico poco minaccioso, ha un raptus che neanche è facile da descrivere, se non ci fossero i filmati televisivi: picchia il ragazzo, che nel frattempo s’era seduto alle sue spalle, e lo fa con una violenza inaudita, sorprendendo anche tutti gli altri che condividevano la panchina. E se non lo separano, avrebbe continuato, tanto è l’impeto.
Gli arbitri neanche s’accorgono della miseria di questa scena, e quest’uomo di oltre cinquant’anni, dopo aver picchiato un ragazzo impertinente, ma neppure ventenne, conclude pure la sua gara riuscendo nell’impresa di pareggiarla con un due a due finale.
I vertici del suo club, appurato dopo l’inevitabile clamore mediatico, quanto successo, lo esonerano. E anche qui, la cosa ci sta tutta: non solo nonostante il potenziale della squadra viola, l’allenatore riminese fin da novembre ha collezionato pessimi risultati e sviluppato un cattivo gioco; ora come risultato rischia la retrocessione aggiungendo come ciliegina sulla torta, pure questa fesseria.

Ma, come succede spesso nel nostro paese, c’è un’Italia che si divide, e lo fa male.
Infatti a contrapposizione di un prevedibile e neanche tanto feroce j’accuse nei confronti della bravata di un ricco sportivo di mezz’età, arriva per lo stesso soggetto una puntuale difesa garantista da parte sempre di quell’uomo della strada, di quel popolo del pallone, che nel frattempo si è evoluto e utilizza internet e i suoi derivati a cominciare dai famigerati social network. E qui si ribalta tutto, come un po’ accadde con Lippi nel duemila, o appena una settimana fa con quei delinquenti che a Genova costringono gli scarsi giocatori che li “rappresentano” a spogliarsi della maglia(sai che sofferenza), bloccando il campionato.
Infatti per i più, Rossi diventa un martire, “uno di noi”, uno che ha fatto quello che vorrebbero fare in tanti. Perché diciamocelo, è stato provocato, Liajic è uno stronzetto che lo ha offeso(la curva della Fiorentina intanto, per non rischiare di trovarsi impreparata, lo ha già bollato come “zingaro” durante il match), e chi stigmatizza quel comportamento violento è un moralista che non ha mai giocato a pallone(l’ex calciatore Di Canio in tal senso diventa maestro di pensiero per l’occasione).
Addirittura, tra le congetture più fantasiose atte a discolpare la follia di Rossi, spuntano sui siti “apocrifi” pallonari le possibili offese che il calciatore serbo avrebbe rivolto al suo aggressore, tra cui la panzana di una fantomatica offesa a un inesistente figlio disabile dell’allenatore.
Ora, a parte il valore dell’argomento già poco consistente di suo(è solo calcio in fondo), quello che sommessamente mi chiedo è: ma possibile che anche quando qualcuno fa una cazzata enorme trova sempre tante persone(molte davvero perbene tra l’altro) pronte a giustificarlo, senza chiamare le cose per il nome che invece hanno?
Parafrasando qualcuno, mi verrebbe da urlare: ma che siamo in un film di Ugo Tognazzi?
Poi però, pensandoci bene, mi rendo conto che non è colpa di nessuno, o meglio è colpa della percezione che ognuno ha rispetto ad un episodio, importante o meno che sia.
Ognuno drammaticamente quasi, dispone di una dose di sensibilità e in proporzione di involontario qualunquismo(quasi fossero caratteristiche fisiche dalle quali non ci si può staccare), per cui avanti tutta…
Sia che muoia Andreotti, che cada il Governo, che succeda un disordine, in fondo mal che vada non hai mica espresso un’opinione di senso compiuto(magari a voce alta), …hai solo cliccato “mi piace” davanti al tuo pc.

p.s. Ricordo che alcuni mesi fa, a margine dello scempio provocato da un certo comandante di una nave da crociera, mi capitò di sentire che con lui in fondo, ce l’avevano maggiormente perché era napoletano.
Già, pensa fosse stato zingaro…


giovedì 3 maggio 2012

Come si deve stare al mondo...

L´allenatore che mena un giocatore, questa non si era ancora vista. Ma nel campionato dei neurodeliri ci sta. Un uomo di 52 anni, Delio Rossi, si avventa su un ventenne. Adem Ljajic, serbo, è un suo calciatore che l´aveva canzonato dopo la sostituzione, come se trenta e passa anni di differenza non contassero nulla. E Rossi diventa il peggiore degli ultrà, gli mette la mani addosso, gliele piazza in faccia, poi lo picchia sulla testa, e se non glielo levano di sotto è ancora lì adesso che lo gonfia. Una cosa pazzesca. Il filmato avrà già fatto il giro del mondo, così ovunque avranno la conferma di cos´è oggi il calcio in Italia, e forse non solo il calcio.

Il pacato signore, due decenni di carriera alle spalle, rare bizzarrie e comunque mai violente (a meno che non fosse da considerare tale Delio Rossi in slippino, dopo il tuffo nel fontanone per celebrare un derby vinto da laziale), poi rimane al suo posto e non è neppure espulso. Strano, perché se due giocatori vengono alle mani, l´arbitro li caccia all´istante. E se la stessa cosa accade, poniamo, in ufficio o in fabbrica, per i protagonisti della scena c´è il licenziamento in tronco, giusta causa, altro che articolo 18.

Siccome, invece, il calcio è terra di nessuno e non solo in curva, anche in panchina, Delio Rossi si prende pure gli applausi dello stadio al rientro in campo dopo l´intervallo. La folla dell´arena ha deciso qual è il gladiatore buono e quello cattivo, infatti per il ragazzino Ljajic s´alza il coro “sei uno zingaro”, perché un po´ di razzismo a sfondo etnico non si nega a nessuno.

Se non fossimo il campionato delle banane, ci sarebbe quasi da ridere. Neppure Lino Banfi, quand´era un “allenatore nel pallone”, si è mai spinto a tanto: i suoi sceneggiatori non avevano tutta questa fantasia. Ma il raptus del quasi anziano allenatore, e lo sguardo sbigottito dei fratelli Della Valle in tribuna (la Fiorentina, in teoria, è il club che aveva inventato il “terzo tempo” e il fair-play sul modello del rugby), e il volto attonito dei calciatori in panchina dicono che questa scena inedita rappresenta davvero l´attraversamento dell´ultima frontiera: dove ci si spinge per assoluta mancanza di controllo nervoso, per isteria, per completa perdita delle più elementari facoltà mentali.

La violenza non trova giustificazione mai, è una terribile piaga sociale che si scatena spesso in famiglia, il luogo delle sopraffazioni più turpi e della cronaca quotidiana più nera, figurarsi se può essere mostrata dentro uno stadio, con un vecchio (d´esperienza, di vita vissuta) che aggredisce un ragazzo e lo colpisce una, due, tre volte, davanti a migliaia di persone. Quel signore non può rimanere al suo posto un giorno di più.

C´è un fermo-immagine che fa ancora più male. È quando Delio Rossi mostra il pugno chiuso a Ljajic, come un bullo da film di terz´ordine, come un picchiatore di periferia, uno di quelli con l´esistenza sfasciata, mica un ricco e privilegiato uomo di calcio. Dove sarebbe andato a finire, quel pugno, se il vecchio non fosse stato portato via?
Eppure dicono che lo sport è quel posto dove i più giovani imparano dai più vecchi come si vive, come si deve stare al mondo.

"Quando i pugni arrivano in panchina" (Maggio, 2012) -  Maurizio Crosetti per “la Repubblica”


http://www.lanazione.it/firenze/sport/calcio/2012/05/02/706355-fiorentina_novara.shtml




** La foto di copertina è un frame tratto da "Il paese delle spose infelici" (2011) di Pippo Mezzapesa




martedì 17 aprile 2012

Siete proprio dei narcisetti



Una foto. Una sola. Quella che ritrae Pier Paolo Pasolini seduto sulla panca di uno spogliatoio. Solo, ossuto, a torso nudo, coi calzettoni tirati all’insù. Si allaccia gli scarpini, lancia un sorrisetto di sfida.
È il segnale che precede la battaglia. “Stukas” sta per divorarsi la fascia, in testa un’idea fissa, quella riprodurre il numero del suo idolo, il “doppio passo” alla Biavati. (...)
Perché i “Settanta” sono stati anche questo, un pallone furiosamente rincorso da uno dei più grandi intellettuali di sempre. Del resto, per lui, il football era una delle tre cose per le quali val la pena vivere. Forse anche più delle altre, l’eros e la letteratura.
Una partita come un mese di vacanza. Tra un set e l’altro era sempre lì, sull’erba, sulla sabbia, inghiottito dalla polvere di uno sterrato. Ad impressionare per la rigorosità dell’impegno, per la capacità di calarsi nel ruolo, sempre attivo, sempre nel vivo dell’azione. Una volta s’inventò un tracciante all’incrocio, ubriaco di gioia si mise a correre come un ragazzino impazzito.
E quando perdeva s’immusoniva, tornava a smarrirsi nelle sue ombrosità. Gli successe anche dopo averle prese da Bernardo Bertolucci in quel match storico giocato nel Marzo del ’75 tra le troupe di “Novecento” e “Le centoventi giornate di Sodoma”. Bertolucci ed i suoi trionfarono per 5-2, ma Pasolini abbandonò prima.
Ai suoi, che non gli passavano la palla, ringhiò furibondo: ”Siete proprio dei narcisetti”.
Una foto. Una sola. Cosi’ intensa da racchiudere un mondo. Un mondo in poesia, un mondo in prosa. I due universi in cui Pasolini divideva il calcio.
E che allora, nei favolosi “Settanta”, seppero miracolosamente fondersi insieme.

Giorgio Porrà
(Aprile 2011 - Presentazione dell'Atlante illustrato del calcio ‘70 sul Blog di ISBN Edizioni)

lunedì 16 aprile 2012

Se domenica fai gol...


"La domenica prima di Natale '75 si giocò Roma-Sampdoria, all'Olimpico. Sugli spalti, nonostante la pioggia, c'erano 50 mila spettatori, quello romanista era il pubblico più caldo e generoso che avessi mai visto. Pochi minuti dopo l'inizio della partita, Cordova dal fondo mi lanciò un pallone magico: in area, riuscii a liberarmi del mio marcatore Zecchini, ma invece di spingere il pallone nella rete sampdoriana lo calciai con forza e schizzò fuori. Venni sommerso da un boato di fischi e insulti, avrei voluto scomparire dal campo, ero distrutto. Poco dopo, mentre Liedholm stava già facendo scaldare Pellegrini per sostituirmi, capitò un'azione simile a quella di prima, e questa volta non sbagliai: insaccai la palla all'incrocio dei pali. Il disastro diventò un trionfo, anche perché quel mio gol alla fine diede la vittoria alla Roma.
L'affetto della tifoseria giallorossa era eccezionale, anche verso i nuovi arrivati come ero io.
Mi chiamavano «Pedro», mi fermavano per strada, mi abbracciavano, mi facevano toccare i loro figli come se fossi stato Padre Pio. C'era un tipo che aveva sempre indosso la maglia romanista e durante gli allenamenti mi gridava: «A Pedro! Se domenica fai gol te faccio scopà mi moije!».

Una mattina Negrisolo, il nostro mediano, mi chiese di accompagnarlo a comprare della frutta da un grande tifoso giallorosso, che aveva il magazzino vicino ai mercati generali. Quando arrivammo là me lo presentò: era Massimo Cruciani, un quarantenne verace "romano de' Roma" che avevo già visto in ritiro. Cruciani veniva spesso a Grottaferrata, era in confidenza con tutti i giocatori. Anche perché, grazie a lui, riuscivamo a fare lo shopping nello spaccio del Vaticano. Nella cittadella del Papa c'era ogni ben di dio e costava tutto la metà. Non so se Cruciani fosse parente di qualche prelato, o se avesse qualche lasciapassare speciale: so che ci faceva entrare in Vaticano con i nostri macchinoni perfino a fare il pieno di benzina a un prezzo divino.
Un giorno, mentre mi accompagnava nella Città santa a fare lo shopping scontato, Cruciani mi disse: «Posso fatte avé un'udienza privata dar Papa... Nun sto scherzanno, te posso fà ricevere dar Papa». 
Ma a me del Papa non me ne fregava niente."

Nel Fango del dio pallone (2000) - Carlo Petrini

martedì 3 aprile 2012

Diego e il tramonto rifiutato


Mi piacerebbe di dare appuntamento a Diego in una piccola pizzeria napoletana, dietro la Ferrovia, dove ci fossimo soltanto lui ed io, e potessimo chiacchierare tranquillamente, a cuore aperto, di quello che gli è successo prima e durante il Mondiale Usa. Lo pregherei di non portarsi dietro nessuno dei maghi e delle ballerine, dei massaggiatori e dei dietologi, degli avvocati e degli stregoni che fanno parte della sua corte dei miracoli.
Tutt’al più gli chiederei se vanno bene, a tenerci compagnia, quei due simpaticissimi professori pazzi, Dini e Nikolaus, che hanno inventato addirittura un club (il Te Diegum: quasi un sacrilegio) per esaltare il loro campione preferito, l’idolo degli idoli, il pibe de oro, l’unico calciatore al mondo – insieme con Lothar Matthaus – che abbia disputato quattro edizioni consecutivi del Campionato del Mondo al massimo livello.
Non vi meravigliate però, se vi confesso che non inviterei a cena Diego per strappargli chissà quali clamorose rivelazioni sulla triste vicenda dell’efedrina, che gli è costata a lui la più grande amarezza della vita (più grande anche delle disavventure giudiziarie), all’Argentina l’eliminazione per mano della scaltra Romania, a milioni di fan in tutto il pianeta, fino alla Thailandia, fino alla Patagonia, un dolore cocente quasi come la perdita di una persona cara.
No, inviterei, Diego a mangiarsi una pizza col vecchio cronista unicamente per fargli capire che i suoi amici veri e disinteressati, voglio dire i tifosi e i giornalisti di Napoli, che non dimenticheranno mai i due scudetti e le Coppe conquistate soprattutto grazie alla sua insuperabile arte, non hanno bisogno di conoscere i retroscena per sapere qual è la verità sulla sua squalifica.
Non l’hanno certo capita quei colleghi italiani, redattori di fogli specializzati che pure dovrebbero essere più vicini ai protagonisti e alle ragioni dello sport, i quali hanno affondato il coltello nella piaga coprendo Diego di insulti e di disprezzo. E per dirla tutta sono lontani, secondo me, della verità anche quegli amici troppo zelanti di Maradona che hanno condiviso fino in fondo la sua versione disperatamente difensiva, secondo la quale egli sarebbe stato usato dalla Federazione argentina e da quella internazionale per fare pubblicità al Mondiale Usa (con la implicita autorizzazione a servirsi di qualunque sistema pur di tornare in condizione) e poi abbandonato o addirittura consegnato alla vendetta dell’anti-doping.
Intendiamoci, non è detto che in queste versioni non vi sia un grado di verità. Se non Havelange, il boss della Fifa, almeno Grondona, il ras della Federazione argentina, potrebbe aver chiuso un occhio in partenza, per avere Diego come impareggiabile direttore dell’orchestra biancoceleste. E se non una congiura per liquidare il fuoriclasse, certo la Fifa potrebbe aver messo un accanimento particolare, un pizzico di cattiveria di troppo, nel bollare a fuoco il campione che, pochissimi giorni prima di essere pescato al controllo anti-doping, aveva osato criticare duramente lo stesso Havelange, l’insopportabile segretario generale Blatter e soprattutto quegli arbitri la cui inettitudine (a dir poco, anzi pochissimo) si sarebbe successivamente abbattuta come un tornado anche sugli azzurri, grazie alle folli decisioni del signor Brizio Carter.
A proposito di retroscena, Diego Armando Maradona ha promesso rivelazioni scottanti e può darsi che sia davvero in grado di farne, giacché nessuno ignora quanto siano enormi gli interessi in gioco nel Mondiale 1994, tra diritti televisivi, pubblicità, sponsorizzazioni e progetti per un campionato professionistico di “soccer” negli Stati Uniti, che costituirebbero un’autentica rivoluzione nello sport americano. Ma anche se il campione argentino regalasse a me quelle piccantissime rivelazioni, io gli risponderei lo stesso che la verità ultima, la verità più umana sulle maledette pastiglie di Daniel Cerini, è un’altra. Perché sono matematicamente sicuro, e lo direi a Diego tra una “margherita” e un bicchiere di Gragnano, che lui quelle pastiglie non le ha prese per curarsi il raffreddore, per dimagrire e neppure per drogarsi. Quelle dannate pastiglie, le ha prese semplicemente perché lui, Diego Armando Maradona, il più grande artista del calcio dopo De Stefano e Pelè, non sa, non può rassegnarsi al tramonto. Per lui lasciare il calcio, rinunciare ai gol, perdere in un’eco lontanissima il grido d’amore della folla, spegnersi senza gloria, è peggio che morire.
Solo di questo vorrei parlare, in quella piccola pizzeria napoletana, con Diego e dirgli finalmente che ad uno scugnizzo di Buenos Aires, nato grandissimo senza essere mai diventato adulto, non si può che volere bene con tutto il cuore.

Antonio Ghirelli (Guerin Sportivo - Luglio 1994)



sabato 10 marzo 2012

Capire non basta. Capire è un limite, è fretta di arrivare...


"Se fai entrare un giocatore cambia per forza l'assetto di tutta la squadra. Basta una variazione per variare tutto. Una parola non conta per la sua storia, ma per il posto che occupa fra le altre. Vedi, io non credo che il linguaggio serva solo a comunicare. Anche i simboli comunicano. No, il senso della parola non può finire qui. C'è altro. La bellezza. Capire non basta. Capire è un limite, è fretta di arrivare, passar oltre, concludere, non guardare dentro a quella magia della parola in sé: scartarla, spazientirsi alla sua levità, inutilità... Capire è fermarsi solo a una reazione condizionata, è usare le parole come biglietti da mille, da diecimila lire, come tessere per entrare, per passare e basta"

"Le parole non le portano le cicogne" - Roberto Vecchioni




Vecchioni, partiamo proprio dal titolo del libro. Dato per scontato che le parole non le portano le cicogne, analizziamo le due parole centrali di questo libro: «calcio» e «pallone».
«Pallone» è una parola bellissima proprio nella sua etimologia: in latino si dice «follis», dalla radice «fo» che indica, in modo onomatopeico, l'aria soffiata dentro il cuoio. Fra i romani i «fullones» erano i conciatori di cuoio, e da lì derivano anche parole come «follia» e «folle», perché si diventa folli, secondo gli antichi, quando l'aria ti opprime troppo la testa. Dalla stessa radice derivano la palla e il pallone, che grazie alla trasformazione di «f» in «p» non sono diventati «falla» e «fallone»... per fortuna. Anche se nel calcio il termine «fallo», che è sempre molto ambiguo, esiste. Ma esprime un altro concetto e viene da un'altra radice. «Calcio» è originariamente il termine che esprime il gesto, l'atto del calciare: viene dal latino «calx», che significa sia «tallone» che «calce» (da qui il doppio significato, di pedata e di elemento chimico). Il fatto che la parola «calcio» sia passata a indicare il football è, credo, una derivazione dal calcio fiorentino. Che però era giocato anche con le mani ed era un gioco al tempo stesso aristocratico e molto violento.

Siamo l'unico popolo a indicare il gioco con un termine autoctono. Tutte le altre lingue, almeno quelle europee, usano l'inglese «football», magari deformato (come nello spagnolo «futbol» o nel tedesco «fussball»).
Già, gli inglesi hanno creato questo termine composto: palla più piede. Molto concreto, semplice. Ma l'italiano «calcio» è più bello. Persino i francesi, che sono sempre così attenti alla purezza della lingua, dicono «foot», all'inglese. Gli americani dicono «soccer», ma solo perché non amano il gioco e il loro football è un'altra cosa.

I francesi, in realtà, usano il termine «calcio»: ma lo adoperano per indicare il campionato italiano. Dei loro campioni che giocano in Italia, dicono che sono andati «à jouer dans le calciò».
Curioso. Non lo sapevo. Credo che possiamo esserne fieri. Come minimo, indica che per i francesi il nostro calcio è davvero un'altra cosa.

Alberto Crespi - Intervista a Roberto Vecchioni


sabato 25 febbraio 2012

Troppa cattiveria in quella coincidenza...


"Ho pensato di vincere questa Coppa dei Campioni quando a cinque minuti dalla fine ho effettuato un gran tiro da fuori area. Ho visto la palla dentro e invece c'è stata una deviazione e la sfera è finita in calcio d'angolo. 
Ho avuto un gesto di rabbia. Poi siamo andati ai rigori, e la sicurezza è svanita."

Roma-Liverpool (1984) - Agostino Di Bartolomei

sabato 28 gennaio 2012

Il problema culturale



Quanti sono i calciatori che "tradiscono lo sport"?

"Molti, troppi. In B più che in A perché a parte 3 o 4 club, gli altri pagano poco, anche 20mila euro l'anno. E così i calciatori sono più corruttibili. Però in generale sono molti, sì, è un problema culturale".

Suona tanto come una scusa. Può spiegarlo questo "problema culturale"?
"Da noi c'è l'abitudine di non infierire sull'avversario, di non mandare in B un collega in pericolo se non c'è un motivo di classifica, di mettersi d'accordo. In Spagna ad esempio non è così. Da noi invece capita che in campo ti chiedano il risultato, è capitato anche a me sia di chiedere sia di avere avuto richieste. E su queste abitudini da quando hanno legalizzato le scommesse "campano" tutti: gli ingenui, gli amici, i balordi, i mafiosi. E il problema assume altre proporzioni. Ma il punto di partenza è un difetto culturale che non riguarda solo i calciatori, ma anche gli altri protagonisti, gli arbitri che vedono tutto e non fanno nulla, il quarto uomo, gli osservatori della Figc, i giornalisti... Perché non è mai successo nulla tutte le volte che un giocatore è stato inseguito negli spogliatoi dagli avversari dopo un risultato "inatteso"?".

Cristiano Doni a Foschini e Mensurati di Repubblica (Gennaio 2012)

lunedì 16 gennaio 2012

Quando San Siro diventa Meazza ecco che spunta il piattone di Oriali...

L'influenza mi fa dolere gli occhi nemmeno avessi l'indigestione addosso. L'aria è tutta un baluginare di puntini che i poeti e i caricaturisti vedono come stelle. Arrivo per tempo alla grande lapide ricoperta di un telo che il buon sindaco Tognoli si tirerà in testa fra gli applausi. Insulterei Paride Accetti che mi invita con Paolo Todeschini a farmi sotto.
Il vecchio Mazzola, papiense, non abduano, mi ricorda che lui, Todeschini ed io giocavamo la palletta ai Boschetti. Le due figlie di Meazza attendono commosse.
Mazzola mi mostra una foto a colori della lapide e noto che la mia epigrafe è stata malconciata per necessità di impaginazione grafica: «Al nome di Giuseppe Meazza, espresso dal suo cuore generoso, la città di Milano intitola questo glorioso stadio tante volte illustrato dai suoi gesti di atleta». (..)

Continuo baluginare di puntini, greve gnagnera contro la quale debbo spingere con gambe legnose. Arrivo al mio posto sfondando compatte barriere di carne odiosa e vociante. Se mi lasciaste lavorare, ragazzini. Sono uscito di casa a dispetto del medico e della tenera coniuge («Sta coperto», si raccomanda; e io: «Dillo al tuo Milan, che se no becca»). Lo spettacolo dello stadio gremito - o gran virtù delli cronisti antiqui - è davvero impressionante. Originalità - se non altro - nell'avverbio. I poveri angelici accoltellati a nordest, i biechi leoni e brigatisti rossoneri a sud-ovest, sopra la porta del freddo, che tocca all'Inter. Bordon costretto ad uscire di corsa dall'area, insopportabilmente invasa dal fumo dei razzi fumogeni rossi. L'episodio mi sembra emblematico: non avviene in sostanza che gli stessi tifosi rossoneri nascondono la porta dell'Inter ai loro benamati?
Agnolin prende atto (paga Felis Colomb) e dà inizio alla partita con minimo ritardo. Il Milan assume l'iniziativa, lascia spazi all'Inter, per la quale compie fervide incursioni Muraro, mal guardato da Morini. Un sapientissimo appoggio di Marini consente a Muraro la botta da gol al 5': è diretta al sette: prodigiosamente vola Rigamonti e riesce a deviare! È una parata-gol di grande importanza immediata e mediata. Il Milan seguita a ruminare il suo forcing senza sbocchi possibili. Il gioco è tarato dalla broccaggine, che è quasi sempre causa di impotenza. Pochi, peraltro, gli affondi dell'Inter. Altobelli implacabilmente bloccato da Collovati. Muraro chiamato a lavorare e sbagliare molto, grani diàvol. De Vecchi inventa una difficile palla-gol per Antonelli al 17': vive l'espace d'un soupir: Baresi I è anche lui febbricitante ma entra a pié rovente e scaglia via.
Questo episodio, che magari pochi hanno visto, è tutto il gioco offensivo del Milan, che stenta molto a quagliare e in effetti non può sorprendere che stenti. Capello si muove con caute gambette di cocker sotto il corpo d'un mastino napoletano. Dopo non più di mezz'ora, il gioco desinit in vaccam. Lunghe meline statiche, indisponenti. L'immensa folla ruggisce improperi. La mia coscienza ottimistica si turba. Oggi tuttavia non ho sufficiente vigore per andare oltre i ringhi a tutta dentiera. Baresi II entra a pié teso sul Béka arrivato dribbling dopo dribbling a minacciare il sinistro dalla linea di fondo: il bravissimo Agnolin non cerca fastidi e concede l'angolo: sarebbe un due calci in area: ma pensa te il casino, assiepare tutto il Milan a ridosso della propria porta: e far battere il free-kick da cinque metri dal palo di destra. Ci arrivava Lo Bello I, sadico mattatore del calcio. Agnolin ha buon senso e non s'inventa protagonista. Meno il torrone - ora mi accorgo - perché il mio taccuino è pieno zeppo di gesti insignificanti. Vedo giocare male quasi tutti: non vedo parare nulla.
Una maldinata di Bini consente ad Antonelli il guizzo d'un possibile gol: spara in corsa accentrandosi da destra: il tiro è forte, subdolo, poco alto: Bordon ci vola sopra da grande portiere qual è e devia (10'). È appena comparso Collovati dalle sue parti per incornare su angolo: l'impatto è splendido, ahi, di poche dita alto sulla traversa. Bini vuol farsi ammonire gettando palla dopo che gli è stata negata la rimessa dall'out: Agnolin non vede, bravo figlio. Oriali tenta il tiro da fuori e ne cava qualcosa che potrebb'essere un passaggio-gol per Altobelli, zompato a deviare con fervida ciabatta: la sua ciccata è solenne (15').
Scema di molto il ritmo e si vede Capello uscir fuori dall'anonimo corricchiare di prìa. De Vecchi tiene assiduamente el Béka ma non riesce ad impedirgli un prontissimo lancio in contropiede: vi è sopra Altobelli e la gente urla: dall'area di rigore esce a passi di lupo Rigamonti e neanche si sogna di opporre il piede per tentare il tackle, come usava Albertosi: lui è decisamente portiere, non pedatore: dunque si mette di traverso e frana su Altobelli cogliendo palla e stringendola forte all'addome. Clamoroso fallo di mani che Rigamonti, qui poco astuto, peggiora portandosi palla in area: l'avesse lanciata via, l'Inter non avrebbe rubato due-tre metri nel posarla a terra per la punizione (18'). Memento.
Tocca el Béka per Muraro (oh noiosissimo schema) dopo indugi ammorbanti. Muraro altro non può che tirare addosso a chi gli corre incontro: lo schiva a metà, colpisce altri in barriera: la palla schizza a destra dove con maligna pinna la sciupa goffamente Marini. Annoto marcature variate in centrocampo: gratuito zelo. A voi che vi frega!? Il Milan è in angolo al 20' per mera goffaggine di Bini (se succed?) nel controllare il cross di Buriani. Non ne esce nulla. Piuttosto, l'accorto Caso fa correre Muraro che ha perso l'ispirazione e gli ridà palla: Caso non riesce a voltarsi per tirare: Maldera irrompe a muso duro. El Béka s'infogna in molti dribblings uno più disperato dell'altro: arriva all'estrema destra, allargandosi, e di là esala un crossetto che pare un sospiro impotente. Esempio di nota-menatorrone: «24': Oriali a Muraro a Baresi I a Muraro cross: via Maldera». Poco prima era avvenuta la stessa cosa a Novellino: cross per Mozzini.
Che stufida, ohi: e non è finita. Romano con molta eleganza tocca su Baresi I (il quale gioca nell'Inter).Capello cerca Antonelli nel folto e lo trova in fuori gioco. Una lunga rimessa di Bordon (sui sessanta metri) consente a De Vecchi di lanciare Novellino incornando avanti: il guardalinee sbandiera fuori gioco.

Inter troppo sbilanciata, annoto al 27': ma il buon vecchio Milan ahimé, è tanto bolso. Una presa alta di Capello a ghermire il lancio di Caso verso punte invisibili. Bini, in disimpegno, serve un avversario: deve scalciare via Baresi I, bravo figlio. Lunghe e statiche meline del Milan verso il 30'. Marini in angolo. Batte Buriani e Collovati di testa rifinisce per Novellino, che manca la possibile rovesciata. Un istante dopo, al 31' Capello stende Oriali a dieci metri dal vertice destro (rispetto al Milan). Giacomini ne approfitta per metter fuori Novellino e in pace la coscienza, che gli rimorde(?), per aver escluso Chiodi.
Eccolo, ora, il fulmine di guerra! E intanto el Béka batte la punizione cercando Altobelli sulla sinistra dell'area: Altobelli supera Collovati nello stacco e incorna al centro, dove si vede Muraro pirlare su se medesimo, non saprei dire se spinto da Morini o dallo zelo tattico: fatto è che dietro di lui spunta il Piper Oriali, il quale batte di piatto destro e infila Rigamonti disperatamente allungatosi nel tuffo. Lo stadio, che è interista dal sindaco agli altri sette decimi degli 80.000, esplode in un boato orribile, che a me dà stordimento e pena. Io avevo scommesso parole e sentimenti sul pari, per tutti conveniente.
Adesso il Milan con il groppo in gola cerca di rimontare e tutto avanti si lancia e su punizione di De Vecchi rientrano a cannocchiale le tozze gambotte di Capello impegnato a incornare (né vi riesce). Maldera esplode tritolo e veleno su punizione e non centra la porta. Ipse Maldera lancia Antonelli a sinistra: controlla in tutta eleganza il magnifico valtellino ed evita in dribbling Canuti e Bini accorsi al tackle: il suo destro, molto angolato, quasi dal fondo, rimbomba sull'esterno del primo palo. È il 37'! Dustin corricchia via senza far lazzi di sdegno nel confronto degli dei. Allo stesso modo Ettore, vista recuperata dalla dea nemica l'asta di Achille, sentì nel suo cuore che tutto era perduto.
In effetti, le ultime immagini sono disperate. La sciamannata pinna di Marini vibra su un pallone che sorvola in ascesa i popolari. Il diligente e arcigno De Vecchi entra duro sul Béka che sicuramente lo insulta. Mehari Buriani, povero figlio, crossa da destra in corsa per nessuno. De Vecchi chiama Romano al tiro, che gli vien forte: vola Canuti e incorna bravamente a deviare. L'ultimo tiro, peraltro abortito, è di Muraro, ispirato da Caso. Il 185° derby di Milano è finito. Ah, perché non son io co' miei pastori.

Gianni Brera 
Il Giornale - 03 marzo 1980







giovedì 12 gennaio 2012

O vi spicciate a segnare o segna lui...



Maradona o Messi? Chi è il migliore? Ho avuto la fortuna o sfortuna di incontrarli come avversari quando ero al Milan e poi al Real Madrid. Li ho visti da vicino, li ho temuti ed anche ammirati, impossibile non emozionarsi nel vederli giocare. 
Credo che preferire l’uno all’altro sarebbe ingiusto, periodi troppo distanti, però si può tentare una valutazione tecnico-tattica dei due fenomeni.
Inizio con il grande Diego, mia gioia e tormento. La prima volta che lo trovai come avversario fu nell’88: il Milan dominava e il Napoli era in chiara difficoltà. Niente poteva fare presagire un gol degli azzurri. Bene, la palla arrivò a Diego, dribbling a un paio di avversari, assist fantastico per Careca e 1-0 per loro. Ero a bordo campo, mi voltai sconsolato verso Ramaccioni dicendo: «No, così non vale». Questo era Maradona che dal nulla poteva inventare sempre qualcosa. Giocare contro Diego era come avere una spada sopra la testa che in qualsiasi momento poteva colpire. Mi ricordo di un Milan-Napoli disputato alla grandissima dai rossoneri, alla fine del primo tempo tutto lo stadio in piedi ad applaudire nonostante il risultato fosse 0-0. Entrai nello spogliatoio e dissi ai giocatori: «O vi spicciate a segnare o segna lui». Maradona era un genio del calcio, le sue intuizioni imprevedibili per chiunque, le qualità tecniche sopraffine, sapeva concludere e fare assist, dare passaggi. Era un leader dotato di straordinaria personalità e carisma, il suo limite-grandezza era che il gioco lo creava lui. Questo gli impediva di avvantaggiarsi totalmente per le sinergie della squadra che gli avrebbe ampliato ulteriormente le già grandissime qualità. Però forse avere come leader il gioco ne avrebbe ridotto sicurezza e personalità. Nessuno lo potrà mai sapere, ma quello che si può dire è che poteva giocare in qualsiasi squadra e farla diventare grande.

Messi è diverso, forse non possiede ancora la personalità, genialità e fantasia di gioco di Diego, però lo sopravanza per velocità, continuità d’azione e professionalità. Lionel ha bisogno di un gioco per esprimersi completamente, Diego no. Messi gioca di più con e per la squadra, a tutto campo e tempo, Diego andava più a sprazzi. Il giovane campione si avvantaggia delle sinergie della squadra per aumentare soluzioni e personalità, mentre Maradona era più autonomo e autosufficiente.
Lionel stenta con l’Argentina composta da ottimi elementi, Maradona vinse un Mondiale, e quasi un altro, con compagni semisconosciuti. Se il calcio fosse un gioco individuale, Diego non avrebbe eguali. Però Messi non ha controindicazioni: riesce a cantare in coro e a fare l’acuto. La prima volta lo vidi in un Real Madrid–Barcellona del 2005 e rimasi stupefatto dalle qualità e dalla gioia che trasmetteva, oggi è un giocatore moderno che partecipa attivamente alle due fasi, bravissimo con la palla, in dribbling e negli smarcamenti, collabora anche alla fase difensiva. In ogni caso entrambi segneranno un’epoca e lasceranno un segno indelebile.

Arrigo Sacchi - La Gazzetta dello Sport (Gennaio 2012)


mercoledì 11 gennaio 2012

Il piede di Dios

                               Murales, Barcellona - Gennaio 2012 (foto axecolours.com)

«Sappiamo che la società sta diventando grigia e un po’ rozza, stato ideale per ricevere e assorbire i messaggi primari di quegli individui vincenti ma insensibili cha a forza di tenere i piedi piantati per terra non toccheranno mai il cielo con un dito. Nemmeno vincendo.
Quel messaggio che si definisce “pragmatico” è la strada più breve verso l’individualismo, l’assenza di solidarietà, gli ansiolitici. Ma soprattutto è falso. Esistere è assai più importante che vincere una partita di calcio. Il gioco serve a sentirsi almeno un po’ felici, per evadere dalle questioni serie, per fare amicizia; quel fondo di fascismo che si annida dietro la “filosofia del risultato” è tipico di gente che divide il mondo in dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in vincitori e vinti. Mi ripugna un simile messaggio e per contrastarlo mi sforzo di lottare. Anche quando alla mia squadra va tutto male e mi tocca perdere.»

"El miedo escénico y otras hierbas" - Jorge Valdano

http://www.corrieredellosport.it/calcio/calcio_estero/liga/2012/01/11-214995/Messi+come+Maradona%3F+A+Barcellona+%C3%A8+gi%C3%A0+%22D10S%22

http://blog.guerinsportivo.it/blog/2012/01/10/messi-ancora-dietro-a-pele/